La chiesa ha origini antiche, ne troviamo per la prima volta la citazione in una bolla di Papa Onorio II del 28 novembre 1125. La chiesa assieme ad altre viene confermata come possesso al vescovo di Veroli. Il documento è conservato presso l’archivio capitolare della cattedrale di Veroli.
Nel 1450, fu dichiarata parrocchia con il titolo di Abbazia. In seguito fu ius patronatus di Filonardi e ricevette doni dal cardinale Ennio, tra i quali tre reliquiari d’argento tutt’ora esistenti. Con decreto del vescovo di Frosinone, Don Angelo Cella, le monache benedettine hanno acquistato l’uso della chiesa con tutto ciò che la stessa possiede. La manutenzione ordinaria e straordinaria è passata al monastero, con piena autonomia nella gestione della chiesa e nell’ordinamento delle celebrazioni liturgiche, fatto salvo il diritto di vigilanza del Vescovo.
Il decreto muove dall’intento ecclesiale, espresso nel documento «mutuae relationes», del 14/05/1978, di rendere le comunità contemplative centri di irradiazione di spiritualità, alla ricerca di Dio in dialogo con il mondo.
Così è consentita l’apertura della chiesa ai fedeli per poter partecipare alle pratiche liturgiche delle monache nel rispetto delle esigenze della clausura, che non consentono commistioni dei laici con le religiose.
Meraviglia il visitatore sprovveduto, che si affaccia all’ingresso della chiesa, vedere le monache benedettine nei banchi riservati, intente ai canti liturgici.
Si ha immediato il senso di un cambiamento e viene spontanea la domanda: ma la «clausura»?
Questa condizione di vita a cui non accenna San Benedetto fu da prima imposta da Bonifacio VIII con il breve «Periculoso» del 1298 e poi confermata dal Concilio di Trento: «I Vescovi sotto lo scongiuro del divino giudizio e minaccia dell’eterna maledizione procurino che sia ristabilita la clausura delle monache».
La clausura è l’elemento che come noto caratterizza il monachesimo femminile.
I parlatori con le doppie grate ancora oggi esistono, ma lo spirito è diverso. Nel monastero non servono più ruote o sbarre per tenere lontano il mondo; le barriere sono interne, spirituali, ed il mondo può ricevere grazia nella partecipazione alla comune preghiera.
La chiesa di San Pietro Ispano, oggi affidata alle amorevoli cure delle monache, è attigua e comunicante con la sede del monastero in palazzo Filonardi. La pianta della chiesa si presenta a croce latina: la nave centrale e la trasversale che è sopraelevata di sei gradini dal piano della chiesa.
Sotto il presbiterio c’è la grotta di San Pietro Ispano, a cui si accede percorrendo la navata principale. La tradizione vuole che la cripta fosse la dimora di San Pietro Ispano, dove il santo trovò riparo e visse in penitenza, lasciando Cadice, la città natale. I fedeli dopo la sua morte, trasformarono la grotta in luogo di venerazione e preghiera e vi edificarono una chiesa. Le monache custodiscono le reliquie del santo. Il reliquiario ha forma di semibusto che raffigura San Pietro Ispano con il petto coperto da un manto trattenuto sulla spalla da una borchia. Un’aureola di metallo argentato è fissata con una vite alla testa del santo. Il busto è una pregevole opera d’arte attribuita a Benvenuto Cellini (prima metà del XVI secolo).
Il Cellini fu al servizio di papa Clemente VII (come orafo), quello stesso papa che ebbe ad affidare incarichi al Cardinale Filonardi come si desume dalla iscrizione del monumento del Cardinale nella chiesa di San Michele Arcangelo in Boville. Sembra quindi più che verosimile pensare a contatti tra il Cellini ed il Cardinale.
In un altro reliquiario d’argento a forma di braccio è conservata la reliquia di un osso del braccio di San Pietro Ispano sopra la quale è incisa un’iscrizione con il nome del donatore e la data. L’iscrizione è la seguente: ENNIUS PHYL.BAUCAN (leggi BAUCANUS, cioè di Boville) EPS VERUL 1531.
All’interno della chiesa, accanto alla porta a sinistra entrando, è posta una croce porfido intarsiata su una lastra di marmo. Vi fu collocata da Giovanni Battista Simoncelli, il fondatore del monastero di Boville, che la ebbe in dono da papa Paolo V, di cui era cameriere segreto, quando fu demolita la facciata della vecchia basilica costantiniana di Roma. La lapide è preziosa perché la iscrizione che la sormonta da indicazioni storiche della persona del Simoncelli, cubicularius del pontefice Paolo V:
HANC CRUCEM POPULI
ADORATIONI.IN.PORTICU.ANTE
ATRIUM.VATICANAE.BASILICAE
EXPOSITAM.ET.E.RUINIS CUM
ANGELI.FIGURA.SERVATAM
IO. BAPTISTA. SIMONCELLUS
PAULI.V.PONT.MAX.INTIMUS CUBICULARIUS
ET.A VESTE.OB.MEMORIAM
TANTI TEMPLI IN HOC AB SE
CONDITO SACELLO REPOSUIT
ANNO MDCXII
La data 1612 va inserita nella ricostruzione della biografia del Simoncelli così come conosciamo quelle di due testamenti dello stesso Monsignore (1621 e 1632): l’iscrizione ci dice esplicitamente che si volle ricordare nel piccolo centro degli Ernici la gran basilica di San Pietro e che il Monsignore, con modestia, considerava un sacello la chiesetta di San Pietro Ispano (notare l’opposizione Templum-sacellum): questo tramite, così si stabiliva, corrispondeva in architettura sacra al rapporto gerarchico fra Simoncelli stesso e il papa suo protettore e benefattore.
Dal libro “Il Monastero Benedettino Femminile di San Giovanni Battista in Boville Ernica – Storie di Angeli – Inediti di Giotto” di Antonio Gabriele Luciani